LA SOLITUDINE DEGLI ANGELI

Due grandi poeti di lingua inglese, Eliot e Auden, ci introducono perfettamente nell’universo lirico di Marina Giannobi. Il primo con la celebre teorizzazione del correlativo oggettivo, per cui sono le cose, gli oggetti di cui parlo in una poesia (o in un quadro o in una fotografia) a dire quale è la mia percezione del mondo, senza bisogno di inutili, patetiche confessioni. Il secondo con l’epos dell’uomo anonimo, che ascende (o discende) la scala sociale dei valori diventando egli stesso un oggetto, una cosa: l’unknown citizen che mangia mediamente, paga mediamente le tasse e mediamente sogna.
Questo potrebbe portare a una sorta di nichilismo malamente puntellato da quella dimensione religiosa o politica che i due poeti cercarono come strumento di resistenza all’usura. Mentre la visione di Marina Giannobi è assolutamente luminosa e solare, carica di fiducia nel mondo e nella vita. La vita in sé, l’amore come forza trainante.
Intanto vediamo come procede, che cosa l’artista ci fa vedere. Niente, apparentemente. Ma quel niente è carico di emozioni e di storia. Quel niente è il libro di Gutenberg che, all’improvviso, dopo essere stato per quattro o cinque secoli un veicolo di solitudine, ridiventa di fatto un’arma di lotta, il segno distintivo che ci avvicina al mondo degli uomini azzittiti da troppe violenze.
Le prime fotografie, a dire il vero, non concedono molto, perché sono tutte in bianco e nero e tutte mosse o sfocate, chiamate a nascondere per rivelare. Così che, andando in metropolitana, a New York come a Milano, a Londra come a Parigi, non vediamo più facce patite o sudate, dato che l’artista le facce le taglia, ma fasci di pagine tremolanti in una luce sobriamente spettrale. Così illeggibili, quelle pagine, che quando a un certo punto si intravede uno spartito è quasi naturale chiedersi se non si tratti per caso di un dono degli angeli. Una promessa di musica.
Dobbiamo insomma essere noi a cercare, a capire, a leggere la mano che sfoglia la pagina, visto che la pagina praticamente non c’è, come non ci sono gli occhi dell’ignoto lettore. Ignoto ma non estraneo a Marina Giannobi: giacché è proprio il suo silenzio che accende la curiosità, l’amore di chi scatta la foto.
Se è vero, infatti, che il transito millenario dall’oralità alla scrittura, e da questa al libro stampato, è stato per i teorici della comunicazione un viaggio drammatico verso la solitudine, in quanto un uomo immerso nella lettura è un uomo apparentemente solo, è anche vero che la solitudine del viaggiatore senza volto di queste fotografie riacquista all’improvviso gli spessori di una libertà impensabile per l’uomo anonimo che non può fare a meno della folla per esistere con tutti i suoi pregiudizi.
L’uomo che legge in treno o in metropolitana, in definitiva, è l’uomo che socializza con le parole scritte da altri uomini in tempi recenti o lontani. La sua essenza non è aspra e solitaria, perché egli non è costretto a star solo, ma sta solo per sua scelta irrevocabilmente umana, che è poi la necessità di tornare a esserci, a discutere, a dire di no.
Tutto questo ci viene raccontato dall’artista con un linguaggio tanto più efficace quanto più scabro e disadorno, e allora capiamo che è proprio la stessa Giannobi a voler indagare e discutere con le sue immagini aperte e chiuse insieme, calde e buie al medesimo tempo, secondo quello spirito di contraddizione che appartiene soltanto ai veri poeti.
In pratica il discorso non può che capovolgersi in un moto pendolare che a tratti lo riaccende, e dal bianco e nero dei santi anonimi, ritratti in metropolitana con il libro in mano - come i santi  nelle chiese cattoliche -, si passa alla luce delle laiche, coloratissime biblioteche, dove ciascuno di noi, almeno da Cartesio in poi, ha certamente il diritto di dubitare, innescando solo per questo discussione e dissenso, perché alla fine, quando il consenso arriva, sia motivato da desideri reali, non dalle scariche diarroiche indotte da certa comunicazione televisiva. Perché è questo il paradosso: che la televisione, dopo aver alfabetizzato milioni e milioni di uomini, in Italia come in Africa, in Asia come in Oceania, è diventata di fatto il più potente veicolo di analfabetismo e sottosviluppo sociale.
Per questo si torna al libro, perché il discorso si allarghi anche a noi che guardiamo, travolgendoci in una silenziosa esplosione di sogni condivisi. Condivisi sicuramente da Marina Giannobi, ma anche da chi, come noi, ritrova nella sua meravigliosa ansietà creativa il segno di un’ansia sociale alla quale non vorrei dare un nome preciso, ma che forse è speranza, fraternità, amore.