LUCES URBIS

L’attività artistica di Marina Giannobi esplora l’intricato universo critico che storicamente connota la diatriba sull’esistenza di uno statuto autonomo della fotografia. “Fotografia come arte” o “arte come fotografia”, è l’eterno dilemma. Dalle sue origini la mitica camera oscura ha solleticato e sollecitato le più accese questioni ora pro ora contro la peculiarità artistica dello strumento, relegando inizialmente i primi operatori al rango di “pittori falliti” che, limitandosi ad una riproduzione meccanica e speculare della realtà, annullavano ogni pretesa di artisticità dell’immagine riprodotta, alla quale veniva così sottratta l’”aura” tipica della pittura tradizionale. Ben presto, però, ci si accorse delle grandi potenzialità espressive del mezzo, connesse non solo al suo automatismo produttivo ma anche alle possibilità concettuali da esso fornite aldilà della pura struttura formale; ciononostante l’universo fotografico resta comunque destinato a vivere il dualismo tra l’unicità del noema, il ciò é stato di Barthes, che attesta l’essenza stessa del processo autenticando la realtà catturata dall’otturatore, e l’antiartisticità derivata dal’infinita riproducibilità  del medesimo fotogramma, che “sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione”, per dirla con le parole di W. Benjamin. Oggi, con l’avvento del digitale, la situazione sembra ancora più complicarsi: l’innovazione tecnologica non solo ha reso ulteriormente accessibile alle masse l’uso delle apparecchiature fotografiche sia per la riproduzione che per la fruizione ( oggi si scaricano le memory-card direttamente sul pc prendendo immediatamente visione dell’immagine ), ma ha facilitato, in particolare, il processo di manipolazione e modificazione dell’immagine stessa attraverso software come Photoshop. Apparentemente il digitale, dunque, sembra dichiarare la morte dell’analogico colpendolo al cuore della sua essenza profonda di traccia, di testimonianza diretta ed esplicita del referente che ora, invece, può facilmente essere ritoccato o non corrispondere al reale; ed effettivamente la spaccatura tra “nostalgici” di acidi e pellicole e gli “integrati” nel nuovo sistema designa la querelle di questi giorni. In questo complesso apparato la produzione di Marina Giannobi si colloca a metà strada, molto vicino al punto di equilibrio tra lettura formale e concettuale, dove l’aspetto contemplativo, l’armonia estetica anche ricercata dell’immagine non esclude la sua funzione attiva, e dove analogico e digitale svolgono esattamente la stessa mansione. Nessuna sofisticazione in fase di postproduzione, ma solo lo scatto “puro” in cui il risultato finale, parzialmente premeditato predisponendo la macchina con filtri e tempi di posa lunghi, rimane “congelato” nella chiusura dell’otturatore. E questo sia nel caso l’artista utilizzi apparecchiature analogiche che digitali. La strutturata conoscenza dei programmi e delle virtualità connessi agli apparati fotografici, e la lucida consapevolezza che la natura stessa della fotografia non può prescindere dalla sua autenticità, dall’essere traccia, segno di qualcosa che “è stato” riattivandone così la memoria,  consentono alla Giannobi di “giocare” tra la realtà e la sua immagine sul sottile filo di un’emotività appena celata e sublimata dall’esperienza. Ogni istantanea racchiude un universo, l’unicità del soggetto e il suo doppio, l’atmosfera di una situazione colta nel pieno del suo divenire in cui confluiscono all’unisono le emanazioni dei luoghi, delle persone e dell’artista stessa. L’occhio discreto scherma appena quello della macchina di una velata soggettività, lasciando dunque lo strumento libero di registrare spazi, ambienti, atmosfere secondo il proprio automatismo in un “sistema combinato” tra autore e mezzo di scelta del momento decisivo, in cui convergono sia lo studio e lo sfruttamento delle potenzialità del mezzo, che le circostanze imprevedibili in cui avviene l’acquisizione dell’immagine. Dice Barthes: “ Nel campo della pratica fotografica, è invece il dilettante ad essere l’esaltazione del professionista: è lui infatti che sta più vicino al noema della fotografia”. La Giannobi si posiziona, quindi, sul limitare dell’uno sull’altro in piena coscienza delle accezioni concettuali, semantiche, formali ed estetiche che ne derivano. L’artista non si eclissa né forza eccessivamente il processo fotografico, piuttosto diventa un tutt’uno con lo strumento registrando con esso le sfumature indeterminabili della realtà e diventando testimone attiva e diretta del grado di entropia rilevato dallo scatto. Che siano persone, situazioni, paesaggi urbani, scorci cittadini, le sue fotografie propongono uno sguardo inedito sulle cose per la capacita di accertare quello scarto impercettibile che esiste tra il “frammento di reale” e il suo doppio, di rinnovare continuamente il rapporto tra autore, segno e fruitore. Luminosità apparentemente irreali, che dal verde passano all’azzurro o al rosso, e il movimento “ardito” dei soggetti conferiscono all’immagine proprio quell’aura di autenticità raddoppiandone il valore di significante e promuovendo una lettura attiva, disinibita e non statica ed esclusivamente contemplativa. In Luces Urbis la Giannobi ha instaurato un filo diretto con la città, accumulando durante il suo passaggio un nuovo bagaglio di esperienza e di “momenti captati” che, rimandando originali ed inconsuete vedute, propongono spunti attraverso cui rinnovare lo sguardo sul ben noto e classico barocco leccese stimolando l’osservatore a completare il senso dell’immagine con il proprio background di memoria e conoscenza.