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Una mostra lampo, nel capoluogo ligure, per Marina Giannobi. Che si inaugurerà il 5 maggio alle 18.00 allo spazio Kaiman Art and New Trends, nel cuore del centro antico.

Una zona che l'artista, che vive e lavora tra Genova e Milano, conosce molto bene. E che ha un'evidente consonanza con l'atmosfera delle sue foto. Basta addentrarsi per i carruggi, infatti, per incontrare e subito dimenticare centinaia di sguardi, in quest'area così vicina al porto e alla sua fertile multiculturale vitalità, incrociando passaggi che evocano spesso paesi lontani, contatti difficili per lessico e timidezza. Contatti chimere, impossibili da cogliere.

Come i passaggi dei soggetti ritratti da Marina Giannobi, che lei fotografa di nascosto ed imprigiona nell'eternità. Immortalandoli, nel senso più proprio del termine. Costringendoli nella storia. La sua ricerca artistica sorprende l'attimo della presa di coscienza dell'altro, di chi vive sullo sfondo degli innumerevoli scenari e momenti della vita, nell'incomunicabilità. Gli scatti dell'artista sono fari puntati sulle comparse, involontari attori dello scorrere del quotidiano, irrinunciabili quanto ignorati.

Il centro storico brulicante di vite è il luogo ideale, quindi, per foto-sfondo, foto-lavagna dei pensieri, che si guardano come tracce per sognare altre identità ed incontri. Mappe morali, come gli antichi atlanti che abbozzavano terre sconosciute, esitando sulle linee delle coste e sovvertendo le proporzioni, prima del principio ordinatore definitivo delle foto satellitari. O come bestiari medievali, dove esseri fantastici e reali intrecciavano tra le pagine impreviste rassomiglianze ed identità. Come studi di fisiognomica, come tutti i tentativi, in fondo, di confinare l'ignoto nei parametri esatti del tangibile. Semplificare, catalogare, 'conoscere'. Mettere in ordine. Così i volti ritratti da Marina, appesi alle pareti come un'umana tassonomia. Un'utopia di comunicazione.

Che Giannobi descrive con chiarezza, in un'intervista realizzata da Linda Kaiser per Mentelocale: "Cerco di catturare la realtà con le sue distorsioni per tentare di conoscere di più l'influenza che il nostro passaggio lascia dietro di noi; le particelle che muoviamo cambiano e queste modificazioni permangono alla fine del nostro passaggio. La nostra assenza è presente."

Il procedimento è parte integrante dell'operazione: inizialmente l'artista fotografa un soggetto in primo piano: un soggetto consapevole, che si mette in posa. Lo mette a fuoco, lo pone al centro dell'immagine. E quando sviluppa la foto, lo taglia via. Cinica artista Robin Hood, Giannobi elimina i primi attori e salva gli invisibili dall'incognito. Collezionista d'identità, da puntare con gli spilli della selezione digitale ad un fondale ideale, nel quale le ombre prendono vita e diventano protagonisti ignari e prepotenti.

Ecco che Giannobi segnala la natura stessa dell'arte, o meglio uno dei suoi più intimi paradossi. Il rappresentare che significa scegliere, quindi escludere, quindi esercitare un potere assoluto sul raffigurato. E sull'osservatore, il cui sguardo è evidentemente guidato dall'artista. Quindi la mimesi del reale altro non può essere che l'oggettivazione di un pensiero individuale.

Ma qui Marina Giannobi introduce un altro elemento concettuale, quello del mezzo: la fotografia è una tecnica che presenta una certa componente d'imprevedibilità, almeno in questo caso. Il 'vero' protagonista è infatti scelto solo dopo lo sviluppo, mentre durante l'inquadratura non è possibile controllare il movimento dei personaggi sullo sfondo, che non sono ovviamente in posa, né altri eventuali passaggi rapidi di persone in secondo piano.

Il mezzo diventa così una sorta di protesi astratta, un alter ego inconsapevole al quale delegare questo terribile potere di scelta. Crea una casualità fittizia, artificiale ma assolutamente imparziale. "Perché", aggiunge l'artista, "dopo aver dato inizio al procedimento con lo scatto, mi piace immaginare che ogni foto cominci una vita propria!".